Omelia del Giovedì Santo come pane fresco sul cammino del “Triduum Paschale”

LO SPIRITO DEL SIGNORERIPOSA SOPRA DI ME
Messa crismale 2017

Carissimi,

il Giovedì Santo di quest’anno arriva dopo aver terminato l’anno giubilare e ormai alla fine del cammino sinodale della nostra Diocesi. Ho percorso in lungo e in largo la nostra Chiesa gaudenziana visitando praticamente tutte le Unità Pastorali Missionarie. Vorrei ora tentare una piccola sintesi di questo cammino, riservandomi di scrivere quest’estate la prefazione al testo sinodale. Con gli eventi di questi tre anni, possiamo dire di aver dato una “scossa all’albero” e di aver potato i suoi rami, così che la pianta riprenda vigore per una rinnovata primavera. La domanda che ci guida è semplice: come sarà il nuovo presbiterio per la sfida che ci attende nei prossimi anni? Per rispondere a questa domanda ascoltiamo l’incipit del vangelo della messa crismale.
16Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
18Lo Spirito del Signore è [riposa] sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato
a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere gli oppressi in libertà,
19 a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Il brano evangelico ci porta alla nostra prima messa, a rivisitare la ragione profonda per cui siamo stati ordinati preti e continuiamo con gioia a vivere il nostro ministero sacerdotale. Il testo mette in luce tre dimensioni fondamentali per essere preti oggi e domani.

1. Lo Spirito Santo riposa sopra di me…

Partiamo da Nazareth, da dove siamo cresciuti, dalla nostra terra e dalla nostra famiglia, da questa Chiesa gaudenziana nella quale siamo nati. In casa e in parrocchia siamo stati generati alla vita e alla fede, nella Chiesa di san Gaudenzio siamo cresciuti al sensus ecclesiae. Diventati preti, siamo entrati in un presbiterio: preti diocesani in questa Chiesa e per questa Chiesa. L’incardinazione è una dedicazione (una dedizione stabile) a questa Chiesa, con il Vescovo. Un prete da solo e in nicchia è una contraddizione in termini: potrebbe aver successo, sentire anche tutta la gente dalla sua parte, e persino diventare quasi un assistente sociale, ma, staccato dall’albero rigoglioso della fraternità ecclesiale e diocesana, i suoi frutti diventano acidi e in ogni caso dopo di lui resterà poco nulla. Perché ha costruito su se stesso e non per la chiesa di Gesù. Un prete nella e con la Chiesa diocesana è chi può dire: Lo Spirito del Signore riposa sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione (v. 18).
Egli è anzitutto un uomo spirituale. E deve essere riconosciuto come uomo spirituale. Su di lui non solo “si posa” lo Spirito, ma lo Spirito del Signore “riposa” su di lui. “Riposa” significa che lo Spirito è il suo stile, che la vita spirituale gli è compagna di viaggio e la comunione fraterna è il clima della sua azione missionaria.
Se lo Spirito riposa sopra di lui, allora il suo stile di vita ha la spina dorsale nella preghiera e nell’ascolto della Parola, in una vita che ha al centro un’unzione spirituale (per questo mi ha consacrato con l’unzione). Il suo essere pastore ha al centro un’unzione da cui è costituito, che si esprime nell’essere l’uomo della Parola e dell’Eucaristia, della comunione e della carità. Al centro del suo essere ci sono due verbi di senso passivo (mi ha consacrato e mi ha mandato). Sono come i due polmoni della sua fisiologia presbiterale! Il prete è consacrato per essere mandato, ma è veramente inviato se rimane consacrato dall’inizio alla fine. È consacrato con il crisma (ékrisén me) per un compito messianico, ma non per un ministero in proprio e isolato, perché i profeti del Nuovo Testamento possono essere solo “insieme” l’eco del profetismo di Gesù. Se si resta profeti solitari si regredisce all’Antico Testamento!
Se lo Spirito riposa sopra di lui, allora la vita spirituale gli è compagna di viaggio. Nei prossimi anni saremo chiamati a ritrovare il volto autentico della vita spirituale del prete. Non preti animatori e affaristi, non presbiteri indaffarati e carrieristi, ma capaci di custodire la propria interiorità, nella semplicità del cuore e della vita, nella custodia della vita spirituale di chi ci è affidato, di chi trasmette un’esperienza cristiana e spirituale, in uno scambio simbolico con la vita dei giovani che faticano a crescere e con le famiglie che stentano ad essere luogo di comunione e vita.
Se lo Spirito riposa sopra di lui, allora la comunione fraterna è il clima della sua azione missionaria. Preti isolati potranno fare fuochi d’artificio, ma non essere missionari, perché comunione e missione sono due nomi di uno stesso incontro: l’incontro di Gesù con la vita delle persone. Una delle cose più belle e consolanti del giro tra le Unità Pastorali Missionarie è aver visto preti che riscoprivano la voglia di camminare insieme. Anzi un religioso ha fatto notare che la comunione tra preti è la cosa che la gente avverte subito: se c’è questa sintonia, la primavera brillerà nei campi della pastorale; senza di essa, ci saranno anche fiori multicolori, ma non frutti saporiti e abbondanti.

2. …e mi ha mandato

Prima di sapere per che cosa si è mandati, bisogna lasciarsi trascinare dalla forza propulsiva dell’essere mandati. Sì la nostra missione non è un affare in proprio, ma è il frutto dell’unzione (presbiterale ed episcopale) che ci mette per strada. Se non sentiamo la forza d’urto di questo essere inviati, della sporgenza del nostro ministero verso coloro che non ci sono più o non ci sono ancora, se non sentiamo la responsabilità ministeriale per tutta la Chiesa locale, allora il nostro essere preti può ridursi a cercare una sistemazione personale, da cui è difficile scomodarci. Sentite la bellezza e la forza di questo “mi ha mandato” (apéstalkén me)!
Si è mandati ad una comunità concreta, ma sempre con l’orizzonte di tutta la Chiesa di san Gaudenzio, con lo slancio della missione universale. Dovremo riprendere presto anche l’orizzonte della missione ad gentes, dando concretezza al compito missionario della Chiesa diocesana. Talvolta si sente che molti parlano e danno consigli su come si dovrebbe fare (e possono essere anche consigli ben accetti), ma pensano però che ciò che dicono sarebbe meglio tocchi al vicino. Sentiamo veramente dentro di noi l’urgenza dell’esser mandati? Ringrazio di aver trovato fratelli preti che hanno accolto con prontezza e con gioia un mandato nuovo. Dopo pochi mesi li ho trovati felici e gioiosi, perché hanno rinnovato la loro mente, riscaldato il loro cuore e sperimentato un nuovo traguardo del loro essere pastori. Il “Signore mi ha mandato” è il segreto della libertà del nostro ministero: vado perché mandato, annuncio il Signore in libertà di cuore, lascio il ricordo di un pastore libero e lieto, perché non ho attaccato a me le pecore, ma le ho liberate perché si nutrano nei pascoli della vita! Un prete così è un pastore che ha fatto crescere cristiani testimoni e la chiesa come testimonianza. Non è lui al centro, ma sta in mezzo come colui che serve!

3. …a evangelizzare, annunciare, rimettere in libertà, proclamare

La missione ci invia verso quattro punti cardinali che ridisegnano in modo nuovo il mondo: 1) evangelizzare i poveri; 2) annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi; 3) rimettere in libertà gli oppressi; 4) proclamare l’anno di grazia del Signore. Il primo e l’ultimo compito sono positivi: si tratta di portare il lieto annuncio ai poveri e di proclamare l’anno di grazia del Signore. Il secondo e il terzo sono medicinali: si tratta di annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi e rimettere in libertà gli oppressi.
Il compito della missione nei prossimi anni ci sembra immane: siamo diventati una chiesa di minoranza. Tuttavia, non dobbiamo dire “piccolo è bello”, perché il nostro modo di essere minoranza sarà di avere il cuore ardente e lo spirito anelo rivolto verso tutti. Se saremo di meno, lo dovremo essere con il cuore grande aperto a tutti. La minoranza può diventare una setta, la fraternità evangelica invece è lievito per la pasta, sale nella terra e luce sul candelabro. La tentazione spinge a creare comunità psichiche dove si sta bene insieme, la missione invece comporta di costruire comunità aperte, dove c’è posto per i poveri, i piccoli, tutti coloro che sono feriti e abbandonati a lato da questa società frettolosa e arrivista. I poveri stanno al centro del vangelo perché il lieto annuncio è per tutti coloro che sanno di aver bisogno, di coltivare un desiderio, di saper stare con gli altri, di tessere relazioni fraterne.
Il compito della missione nei prossimi anni ci appare impossibile: possiamo diventare una chiesa timorosa. Lo saremmo in questo tempo che sta diventando areligioso e postsecolare, se pensassimo di annunciare un vangelo facile, un lieto annuncio umanizzato in una forma di filantropia, di solidarismo benefico, oppure un lieto annuncio che non è più scomodo, che è consolatorio, una religione da supermercato, del benessere psichico, della compagnia elitaria, del gruppo degli eletti. Il mondo areligioso di oggi sembra aver sostituito la salvezza con la buona qualità della vita, prevede anche forme di solidarietà, ma sono quelle di un volontariato che non cambia lo stile della vita civile. Magari al sabato mette i panni eroici del volontario, ma non trasforma i rapporti di lavoro e i legami sociali. Il mondo postsecolare scopre un tipo di spiritualità emotiva, di devozione prêt-à-porter, di gruppo consolatorio che segue un guru che ti lega a sé e non al Signore. Dobbiamo essere pastori che sanno educare cristiani testimoni, che sanno abitare la città secolare senza diventare mondani, che sanno vivere la famiglia nucleare senza morire di appartamento, che sanno accompagnare con amicizia i giovani senza smettere di sognare in grande, che non si circondano di laici yesmen, ma di testimoni corresponsabili forti e appassionati.
Il compito della missione nei prossimi anni ci sembra insopportabile: dobbiamo però diventare una chiesa responsabile davanti al proprio tempo. Alla fine del Sinodo ho scritto un Liber pastoralis anzitutto come dono per la nostra Diocesi. L’ho pensato come un canovaccio, quasi un disegno a china che ciascuno può colorare coi colori della propria creatività. Nell’epilogo del testo ho scritto così:
«Per rimediare alla malattia mortale dell’“accidia pastorale”, bisogna prendere la decisione di restare “responsabili di fronte al tempo presente”. Ancora ai primi passi del terzo millennio, di fronte a una transizione di carattere epocale, la figura del ministero pastorale sta mutando radicalmente […] L’atteggiamento di “responsabilità” è un atteggiamento di cristiana fierezza di fronte alle sfide attuali e manifesta la coscienza che lo Spirito del Signore guida ancor oggi la sua chiesa. Possiamo osare ancora. Papa Francesco ha proposto una felice articolazione di questa responsabilità, distinguendo tra pastorale “paradigmatica” e pastorale “programmatica”: la prima osa ripensare radicalmente la pastorale ordinaria in termini missionari; la seconda deve dare concretezza pratica ai gesti missionari che vogliono raggiungere gli uomini e le donne nel loro contesto di vita».
Questa è la sfida: La Chiesa di Novara c’è, il vescovo con preti e i credenti ci sono, per annunciare l’anno di grazia del Signore!

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