Il 25 aprile di Anna Ferrato, una bambina che lo ha vissuto

Anna Ferrato è nata a Grignasco nel 1938 e ha vissuto gli anni dell’infanzia durante la seconda guerra mondiale.
Anna, dotata di una spiccata sensibilità artistica, è una donna molto dolce e sensibile, sempre disponibile a dare una mano quando serve. Da anni ogni settimana si reca in Casa Serena per visitare le persone ricoverate, ascoltarle facendole sentire amate. E’ la vedova di Renzo Zenone, un prezioso volontario che per anni ha operato in Biblioteca e se ne è andato lasciando incredule e attonite le persone che lo conoscevano e ne apprezzavano le doti umane e organizzative.
Della famiglia Ferrato, originaria di Vigliano D’Asti, composta da papà Giovanni, mamma Erminia Alciati, le sorelle Anna, Carmen, che era nata nel 1934 e Carla nata nel 1940, sono rimaste solo Anna e Carla che vivono entrambe a Varallo.
La guerra è impressa nella memoria di quella bambina con un pesante sigillo di insicurezza, paura, violenza. Molti anni dopo, su un quaderno di scuola, Anna ha raccontato alcuni episodi, quasi per liberarsene, per metterli fuori da sé e poterli finalmente guardare senza rabbrividire.
I ricordi iniziano da una casa isolata che si trova nei pressi del ponte di Ara: “La mamma quel giorno stava stirando quando sentì arrivare uno sparo contro la nostra casa, non sapeva cosa stesse succedendo, nel frattempo il papà arrivò di corsa e disse che stavano arrivando i fascisti e i tedeschi e che quindi bisognava andarsene, perché non si era al sicuro. Papà sapeva che proprio sotto la frazione Ara c’era un rifugio verso il quale dirigersi: era la Cava del Colombino, di proprietà di alcuni cugini per i quali papà lavorava. Mamma preparò le cose essenziali e partimmo. Per strada dei tedeschi ci fermarono e ci chiesero dove eravamo diretti, papà raccontò degli spari che avevano colpito la nostra casa e della paura per la sorte delle sue tre figlie piccole. Ci lasciarono andare: “Rauss, Rauss”. Nel rifugio c’era già un’altra famiglia: anche loro erano pieni di paura. Dei passi pesanti scendevano dalla montagna, facevano pensare a più persone, sentimmo echeggiare delle voci straniere: mamma e papà erano molto tesi. Papà e l’altro signore decisero di uscire allo scoperto, noi rimanemmo nascosti all’interno, attendendo terrorizzati quello che sarebbe potuto accadere. I tedeschi li picchiarono per costringerli a dare delle informazioni sui “ribelli” che ad Ara avevano ucciso un loro commilitone, poi entrarono nel casotto con i mitra spianati, minacciando di portare i due uomini in Germania. Noi piangevamo disperatamente e mia sorella Carmen si buttò ai piedi dei militi implorando. Uno dei soldati si commosse, forse ripensando a sua figlia in Germania, mentre gli altri frugarono nelle borse della mamma, che per fortuna non aveva con sé gli indirizzi dei prigionieri inglesi che lavoravano nella Cava, altrimenti avremmo fatto tutti una brutta fine. Tornando a casa incrociammo un’altra pattuglia alla quale papà dovette dare di nuovo tutte le spiegazioni, anche loro vedendo noi tre bambine ci lasciarono andare: “Rauss, Rauss”. Arrivati davanti al nostro cancello mamma non si decideva ad entrare per paura che ci fosse qualcuno all’interno. Papà e Carmen trovarono la casa tutta in disordine, ogni cassetto ed armadio era stato rovistati, per terra indumenti sporchi, le nostre misere scorte alimentari erano state divorate, o erano state sparse a terra, nello zucchero, che sarebbe dovuto bastare per un mese, avevano defecato: non ci rimaneva più nulla.
Da quel momento iniziò il nostro calvario: decidemmo di rifugiarci in centro paese, chiedendo ospitalità a qualcuno. All’osteria della Leontina c’era un posto di blocco e i soldati indossavano i nostri abiti: Leontina lo segnalò a un superiore, dicendo che ci erano stati rubati e costrinse i militi a restituirceli. Cominciammo a girare come degli zingari, per fortuna trovammo sempre persone buone che ci ospitavano. Papà era stato esonerato dal servizio militare, ma quando succedeva qualcosa in paese per prudenza si nascondeva. Era una vita di miseria, di stenti, di paura: i nostri genitori si privavano di ogni cosa per noi bambine. Io chiedevo insistentemente alla mamma: “Ma quando finisce questa guerra?”e lei non sapeva darmi una risposta.
Trovammo una abitazione nella zona della nostra prima casa, che però, come ho spiegato prima, era troppo esposta, essendo proprio all’inizio del paese. Papà aveva un cavallino: Morlupo, che attaccava al calesse per portare i nostri cugini a Novara o per portare i loro figli a scuola a Varallo. Il cavallo si spaventava per gli spari e quindi per salvarlo lo fece uscire dalla stalla, lo montò e veloce come una freccia – ricordo ancora gli zoccoli che sfioravano a malapena l’asfalto – scappò. Il cavallo incalzato dagli spari, pareva impazzito, ma papà riuscì a condurlo nella zona della Traversagna, molto più sicura.
Anche quella casa per noi era diventata troppo pericolosa, tornammo quindi in centro paese e trovammo ospitalità alla Società Operaia, dove c’era già un’altra famiglia composta da due persone anziane. Una notte avvertimmo sulle nostre teste il ronzio degli aerei, i tedeschi impauriti invasero il cortile, bussarono alla nostra porta chiedendoci di aprire, sembravano impazziti. Entrarono e ci fecero mettere tutti in corridoio: si misero a sparare dalle nostre finestre e poi si sistemarono al pianterreno dell’edificio ed iniziò una convivenza difficile. Quando noi bambine scendevamo le scale ci davano delle gallette. Ricordo una domenica che stavano litigando fra loro e ci fu anche un morto. Papà rientrando dal lavoro all’altolà scandito dai militi doveva sempre farsi riconoscere.
Dai cugini Colombino, alla cava, lavoravano degli Inglesi, prigionieri di guerra, che si erano affezionati alla nostra famiglia, ricordo che dove vivevano avevano scritto i nostri nomi sul muro. Mamma quando cucinava qualcosa di buono lo portava anche a loro, che in cambio ci davano del cioccolato. Quando due si ammalarono e si rese necessario ricoverarli all’ospedale di Borgosesia, la mamma imparò ad usare la bicicletta per andarli a trovare, portando loro la biancheria pulita. Un giorno non li trovò più: le dissero che qualcuno li aveva aiutati a fuggire. La mamma ci rimase male, ma si augurò che fossero riusciti a salvarsi.
La Pasqua del 1945 la ricorderò come una Pasqua di sangue: il venerdì santo un camion di tedeschi fu fatto saltare dai partigiani davanti al cimitero: fu una strage.
Il giorno più bello per me fu il 25 aprile 1945: abitavamo allora nella casa dei Signori Francioni, al mattino, dal balcone che si affacciava sulla strada principale di Grignasco, vedemmo passare dei camion carichi di tedeschi e di fascisti – per me bambina erano tutti uguali – con la testa bassa e sentimmo la gente che diceva che la guerra era finita e si abbracciavano tutti. Ricorderò per sempre quella felicità.
Prego sempre che non arrivi più un’altra guerra: solo chi ha vissuto quei terribili anni può capire. Io, pur essendo una bambina, avevo capito che da una parte si lottava per la libertà, mentre dall’altra c’era la dittatura, ma porto ancora nel cuore il dolore di quegli anni. La dignità e la libertà di ogni essere umano sono beni preziosi che vanno difesi e tutelati: non bisogna dimenticare il sacrificio di coloro che diedero la vita perché il nostro Paese tornasse ad essere libero”.
Questi sono i semplici ricordi di una bambina che ha vissuto la guerra e ha voluto condividerli in questo anniversario, per ravvivare la memoria affinché il 25 aprile non diventi solo una commemorazione.
Piera Mazzone
IMMAGINI
- Anna e la sua famiglia;
- Il Papà di Anna vicino al trenino per trasporto materiale;
- Cave Colombino: maestranze;